Ho sempre amato questa recensione della giornalista di La Repubblica Natalia Aspesi, soprattutto le ultime righe.
Alle sue parole, che seguono, aggiungerei che quello che probabilmente colpisce e cattura in modo irresistibile di questo film è come sia possibile rintracciare un riflesso, un frammento almeno, della personale educazione sentimentale di ognuno di noi. Anche se, nel mio caso, si è donna, eterosessuale, fidanzata. Certo un vissuto omosessuale favorisce l'identificazione con i personaggi e forse anche una dolorosa armonizzazione con il loro vissuto, ma la paura di scoprirsi, di amare è qualcosa che prima o poi chiunque di noi credo abbia sperimentato nella sua vita.
Je vous embrasse
BROKEBACK MOUNTAIN
Natalia Aspesi
Come tutte le grandi storie d’amore, anche questa è intensa e desolata, infuocata e senza speranza, eterna e interrotta. Abbiamo letto centinaia di romanzi e visto mucchi di film che ci hanno raccontato queste passioni vissute e negate, le sole che davvero commuovono, le signore naturalmente, perché gli spettatori maschi, come si sa, si infastidiscono a storie grondanti sentimento.
Brokeback Mountain, vincitore del Leone d’Oro all’ultima Mostra del Cinema di Venezia e candidato agli Oscar, piace soprattutto alle donne: le più emotive, alla fine, addirittura singhiozzano, anche se, come ormai si sa, il bel film del regista sino americano Ang Lee (La tigre e il dragone, Hulk), tratto da un breve racconto del premio Pulitzer Annie Proulx, racconta la lunga, dolorosa passione tra due uomini, addirittura tra due cowboy, massimo simbolo del machismo etero. È il 1963. nel Wyoming, un tempo e un luogo in cui l’omosessualità era una macchia inconcepibile, un’esclusione tragica: “lo non sono frocio”, dice il bruno dalle lunghe ciglia Jake Gyllenhaal. “Neanch’io”, gli risponde il biondo Heath Ledger. Eppure nella gelida notte, nella solitudine meravigliosa della montagna, dopo essersi riscaldati con molto whisky, riparati dentro la stessa piccola tenda, inaspettatamente si sono baciati, avvinghiati, posseduti. Il film inizia come tanti western, un giovanotto dal cappellone da cowboy calato sul viso sta appoggiato in silenzio a un muro, ne arriva un altro, con lo stesso cappello, lo stesso silenzio: cercano un lavoro temporaneo come mandriani, gli affidano insieme un gregge di pecore da portare a pascolare sulla montagna e da difendere dai predatori.
Giorni di noia, notti stellate e mute, poi quell’improvvisa fiamma: è stato un caso, non dovrà saperlo nessuno. Alla fine della stagione ognuno torna alla sua vita, uno in Texas, l’altro nel Wyoming, una vita che è un susseguirsi di giorni difficili e opachi, in brutti villaggi, in case squallide: tutt’e due si sposano e hanno figli, è quella la vita giusta per un uomo, un campione di rodeo, un mandriano. Resta muta, in loro, quella luce che li ha uniti contro ogni ragione, indimenticabile, quell’ombra di pericolo che li tiene lontani uno dall’altro. Ma non si può essere sempre uomini forti, capaci di rinuncia: ogni tanto si concederanno una vacanza dalla loro esistenza, dai loro problemi, dalle mogli non amate, dall’infelicità e incompletezza. Con la scusa di andare, come veri, rudi uomini, a pescare, torneranno, soli, su quella magica montagna a amarsi, rimpiangersi, a sognare un’impossibile vita insieme. Il cinema abbonda di commediole gay, e siamo arrivati, con lo spagnolo Reinas sugli schermi ora, alla celebrazione di nozze di coppie di uomini e di donne. il film di Lee torna a quel cinema d’epoca che se affrontava un tema così scottante allora, non poteva farlo che in chiave tragica. Per il modo in cui esprime il dolore di una ferita mai rimarginata, lo sperdimento che schiaccia chi non può accettarsi né tanto meno amare, l’impossibilità di infrangere la prigione delle regole, l’imporsi in tutta la vita di assenza e menzogna, Brokeback Mountain è un gran film: molto attuale, perché la liberalizzazione delle regole e dei costumi non libera dall’angoscia dei sentimenti inaccettati, dal rifiuto di se stessi.