Parlavamo ieri di Closer come un film di "volti". Anche Candy sembra esserlo.
Peccato che, per ora, le critiche italiane siano tutt'altro che buone. In entrambi i casi ricorre l'aggettivo "finto", non può essere un caso.
Le impressioni che avevo ricavato dal trailer e da immagini come questa, erano tutt'altre. Di estrema naturalezza.
Ma occorrerà vedere il film per giudicare (e speriamo davvero che esca tra una settimana!)
Due ragazzi entrano in una stanza rotonda: una giostra che gira velocemente su se stessa. La forza centrifuga li spinge contro la parete e loro sono felici: sono insieme e si amano. Un "Heaven", come recita la prima didascalia, che viene trasformato dalla droga e dalle sue conseguenze in "Heart" e, poi, "Hell".
Il "paradiso" è descritto dal regista Neil Armfield con un tocco leggero e ironico: eroina e amore si intrecciano nella vita dei due come uno stesso vortice di ebbrezza. Sulla "terra", e ancor di più all' "inferno", i problemi emergono insormontabili: la prostituzione per lei è insostenibile, così come il tentativo di disintossicarsi, e come la gravidanza.
L'esperienza della "nascita", porta i due direttamente all’inferno, ma forse non fino al suo fondo...
Ed è in questa discesa agli inferi che il film perde compattezza e credibilità: finti i bellissimi protagonisti (peccato per il bravo Heath Ledger, qui male utilizzato) che non perdono un millimetro del loro fascino nonostante il trucco da tossici, finte le situazioni (le pareti della casa con le scritte folli della ragazza che sembrano disegnate dal calligrafo di Greenaway), finte le azioni (lui sempre "in botta" che in un attimo organizza un’ingegnosa truffa). Una confezione alla ricerca di uno spazio fra decorativismo e melodrammaticitàdi Francesca Felletti (MY MOVIES)
Se si dovesse prestare fede agli applausi del Palast e dintorni, The Road to Guantanamo sarebbe un capolavoro e il campionato della Berlinale sarebbe già chiuso. Va bene così, a meno che non ritorni in mente la distanza abissale che s'apre ogni giorno di più tra il circo mediatico e coloro che pagano cash nei cinema di tutto il mondo. Forse per mitigare la sbornia d'indignazione anti-angloamericana, il cartellone ha però previsto un passaggio più cinéfilo in senso stretto. Al nostro «Romanzo criminale» si sono affiancati, infatti, il sofferto Sehnsucht e il soffertissimo Candy senza peraltro fare scoccare la scintilla utile per accendere la corsa a uno degli Orsi d'oro. L'opera prima della tedesca Valeska Grisebach è letteralmente ricamata sulle tonalità, insieme melodrammatiche e favolistiche, di una love story tra trentenni: il meccanico e pompiere Markus e la cameriera e corista Ella. Purtroppo un giorno Markus si reca a Berlino e la metropoli distrugge in poche ore la sua fedeltà a Ella e la sua stessa identità psicologica. Il finale tragico non basta a far trovare al film un vero equilibrio; ma, almeno per quanto riguarda lo stile, la quarantasettenne di Brema dimostra di non essere una regista qualunque e di meritarsi nuovi confronti con soggetti e sceneggiature meno divaganti e pretestuosi. Neil Armfield, al contrario, dovrebbe essere rispedito d'ufficio al teatro australiano, di cui le note biografiche assicurano che sia un esponente autorevole. Forse ignaro, a causa dell'isolamento, della sterminata filmografia esistente sul tema dell'odissea dei drogati, dettaglia con minuzioso compiacimento il degrado cui vanno incontro due bellissimi e ultradannati ragazzi di Sydney. Nonostante si sia in qualche modo coperto affidando i tragici ruoli all'emergente Heath Ledger (I segreti di Brockeback Mountain sui cowboy gay) e all'avvenente biondina Abbie Cornish (insieme nella foto), il regista non sa fare altro che riempire lo schermo di turpitudini tentando di contrabbandare il finto-poetico voyeurismo per rilettura di un problema sociale. Non si capisce perché la pornografia, che riproduce una «verità» molto meno nociva e molto più piacevole, sia bandita dai grandi festival che, al contrario, prendono sul serio patacche simili. Fulvio Caprara - Il Mattino, 16 febbraio 2006